Luigi Barzini: Quel che è avvenuto a Oslavia GENNAIO 1916

«Corriere della Sera», 6 febbraio 1916

 

Dalla fronte, 1 febbraio 1916

Tutto quello che è avvenuto a Oslavia, la successione tempestosa di attacchi e contrattacchi che ha fatto per cinque volte oscillare avanti e indietro la linea delle posizioni sopra un fronte di un chilometro e mezzo non ha che un valore di episodio. È stata un’azione di battaglioni la quale non poteva avere, qualunque fosse stato il suo esito, una influenza apprezzabile nel complesso delle operazioni.

Oslavia è una soglia tra i due pilastri del Sabotino e del Podgora, e non ha che l’importanza di un passaggio. È una posizione di transito, non una posizione di appoggio, di comando, di solidità. Essa apre una strada al dominio di Gorizia, ma il dominio è al di là. Per essere utilizzata Oslavia deve essere varcata. Non permettendoci le circostanze di inoltrarci, poco importa che le trincee in quel punto siano trecento metri più avanti o trecento metri più indietro.

Per sé stessa Oslavia non controlla alcun settore, non s’impone da nessuna parte, non ha forza propria; è una strana bassura ondulata e varia, un labirinto di collinette, di burroncelli, di greti, di vallette, sul quale tutti e due gli avversari possono battere con piena efficacia. La facilità relativa con cui Oslavia è presa e ripresa, dice la difficoltà di tenerla. Nessuna occupazione può mettervi solide radici.

Ma se l’azione di Oslavia non è che un episodio nel quadro della guerra, essa ha un interesse profondo per i suoi caratteri, per la sua intensità, per l’esempio singolare che offre dei sistemi odierni di combattimento, per l’eroismo di cui era tutta vampante, per la sua feroce bellezza.

Oslavia aveva per noi il difetto di tante posizioni prese d’impeto, in avanzata. Non possedeva solidamente alle spalle tutto quel solido appoggio di fortificazioni composte di rifugi, di passaggi protetti, di cunicoli, di trincee, di tane, che le truppe sono costrette a creare quando conquistano con sforzo lento e costante, scavando e minando.

Dove l’offensiva è più difficile, più lunga, più cauta, come sul Podgora, si debbono compiere lavori immensi di attacco che danno resistenza alla fronte e perciò servono anche alla difesa. Le retrovie sono meglio garantite, le comunicazioni più sicure, il sapiente alveare di profonde gallerie che si distende sui rovesci diventa un serbatoio di riserve pronto; l’arrivo immediato di rincalzi è facile e relativamente protetto. Il nemico che occupasse di sorpresa un tratto della prima linea, avrebbe subito il passo sbarrato da un dedalo di cunicoli, non potrebbe sfondare facilmente, si troverebbe rinserrato come in un sistema di paratie stagne, preso in un intreccio misterioso di passaggi nei quali l’assalto si disgregherebbe per finire senza forza, incanalato in una rete di trincee, ad urtare contro sbarramenti minuscoli e insuperabili.

Ma quando una posizione non è stata raggiunta con i tenaci sistemi dell’assedio, quando l’azione l’ha conquistata solo con brevi soste, alla buona vecchia maniera, non rimangono sul territorio d’avanzata tracce profonde dell’attacco; il terreno è impreparato e più o meno scoperto ed esposto, i camminamenti sono pochi e superficiali, i rifugi insufficienti. Quei lavori che si è costretti a fare quando l’offensiva lo impone, non sempre conviene compierli poi per la difensiva, considerando che essi richiedono uno sperpero enorme di energia, di tempo e di materiale in luoghi che si spera di abbandonare per una nuova avanzata. Allora la prima linea rimane relativamente isolata, sottile, fragile.

A Oslavia sarebbe stato anche difficile intraprendere grandi lavori di consolidamento a causa della natura stessa del suolo, molle, friabile, che scivola, che si impasta, che si sfalda. È un suolo argilloso che la pioggia scava, trascina e scioglie in melma. Le pareti delle trincee profonde crollano, i camminamenti si colmano: bisognerebbe ricorrere a rivestimenti di fascine di legname, che il bombardamento facilmente sconvolge o incendia. La costruzione di trincee di cemento, le sole che si adattano al terreno, non è possibile nella vicinanza immediata del nemico, a cinquanta o sessanta metri dalle mitragliatrici. Per la stessa ragione invece dei reticolati, che non possono venire solidamente piantati, si adoperano come difesa ausiliaria i cavalli di Frisia, dei grovigli di filo di ferro spinato intorno ad armature di legno, che si costruiscono lontano, che si trasportano di notte per gettarli e ancorarli al di là delle trincee, e che perciò debbono essere forzatamente leggeri.

Per arrivare alla alture di Oslavia noi dobbiamo scendere in un terrazzo che il nemico domina quasi interamente, giù per gli ultimi declivi orientali di San Floriano in fondo a una valletta e poi risalire. Tutto questo terreno non offre che un troppo incerto riparo alle truppe di riserva, che non potevano essere tenute nelle immediate vicinanze delle posizioni per venire scagliate nel momento opportuno. Tre, quattro ore di difficile marcia li separavano dall’azione. Dopo lunghi bombardamenti micidiali e sconvolgitori, al sopraggiungere di assalti improvvisi e serrati, è difficile che qualche elemento di trincea, privo di soccorsi, non esaurisca in alcune ore la sua forza di resistenza. In queste condizioni, all’arrivo dei rincalzi non è più questione di difesa ma di offensiva: bisogna riprendere quello che si è perduto.

Perciò la caratteristica delle recenti azioni di Oslavia è stato il contrattacco. Ci siamo difesi conquistando. Rispondevamo agli assalti assalendo. Il nemico non arrivava ad insediarsi sulla posizione, che ne era scacciato.

Fu il 12 di gennaio che si cominciò a presentire l’offensiva austriaca. Quel giorno, il fuoco di artiglieria che batteva Oslavia si fece più intenso. L’indomani il bombardamento aumentò ancora. Il 14 anche i grossi calibri del nemico entrarono in azione. Dei 280, dei 210, persino dei 305, tempestavano i trinceramenti e le retrovie, fulminavano gli approcci, cercavano le nostre batterie e le nostre riserve nella distanza. Tiravano sulle rovine di San Floriano, sui ruderi di Quisca, frugavano gli avanzi dei villaggi demoliti, mentre le artiglierie nostre rispondevano con tiri d’interdizione e la valle di Oslavia si costellava di eruzioni e di nembi, che spandevano il loro fumo filaccioso e greve in lunghe striature grigiastre.

Nel pomeriggio il cannoneggiamento si fece serrato, continuo, era udito da tutta la piana friulana, il suo boato arrivava a Udine come un brontolio di temporale sull’orizzonte sereno.

Le nostre trincee, talvolta percosse in pieno, crollavano qua e là; i soldati rannicchiati nel fondo ricevevano le frane pesanti dei parapetti sui loro dorsi curvi e si trovavano spesso chiusi e premuti in una tenebra improvvisa, soffocante e fredda, interamente sepolti nel molle terriccio greve dal quale essi emergevano faticosamente, come formiche dalla sabbia del formicaio calpestato, per rimettersi subito al lavoro di rafforzamento, febbrili, muti, le vesti, il volto e le mani incrostati di mota, simili a statue di creta con degli occhi viventi.

Dei blindaggi colpiti saltavano in aria in una vampa, e travi e tavole volavano alte nel fumo, roteando. I cavalli di Frisia, divelti dai loro ancoraggi, erano rovesciati; gettati via, dispersi dagli scoppi, e sui bordi delle trincee passavano raffiche clamorose di schegge, di pietre, di detriti, di rottami, di pallottole, di fili di ferro strappati alle difese e staffilanti l’aria con sonora veemenza. Si videro, poco a tergo delle postazioni, dei tronchi d’albero enormi, sfrondati e cincischiati dal fuoco dei combattimenti passati, ma rimasti fino allora saldi come colonne, schiantarsi e sparire lanciati lontano nel barbaglio del baleno.

Entro le trincee passavano soffi possenti e caldi, buffate di un ardente uragano, travolgenti e brevi: l’alitare impetuoso delle esplosioni vicine. Non si ascoltava più l’ululato delle granate in arrivo, quella gran voce sovrumana che avverte; troppo vasto era il coro prodigioso dei proiettili che solcavano il cielo, e gli scoppi stordivano come percosse.

Il rancio caldo non poteva essere portato lungo i camminamenti battuti, e la truppa mangiava i viveri di riserva, quando si ricordava di mangiare. Le perdite indebolivano certi reparti più esposti, battuti d’infilata; qualche plotone non aveva più comando. Da quell’inferno arrivavano fonogrammi pieni di calma e fiducia.

L’eroismo della fanteria nella guerra moderna è quasi sempre una virtù di sopportazione, la forza di una immobilità; si combatte giacendo senza difesa in una bufera di morte. Il nemico non si vede, il pericolo non si para, e il valore di una difesa è in una tenacia passiva, nell’inerzia di una attesa indefinita entro un’atmosfera di massacro. L’unico nemico col quale si lotti in quelle ore eterne è il proprio istinto; bisogna inchiodarsi con la volontà sulla posizione insanguinata. Nulla può soccorrere, l’arrivo di rinforzi nelle trincee tempestate non diminuirebbe il pericolo e aumenterebbe le perdite. Il rinforzo si tramuterebbe in un indebolimento. È necessario che gli effettivi in prima linea siano minimi e siano saldi.

Vi è un solo momento in cui la loro presenza in trincea è indispensabile, il momento nel quale il cannone tace e la fanteria avanza. Per aspettare questo momento risolutivo dell’urto, debbono sottomettersi in silenzio per giorni e giorni alla folgorazione delle artiglierie, essere delle cose, essere come delle zolle viventi della terra flagellata. Quando il terreno lo permette, i difensori si ritraggono dalla linea battuta e si tengono al coperto aspettando l’assalto, e appena l’artiglieria tace, si ributtano avanti, ripopolano la posizione abbandonata, e sulle trincee demolite fermano l’avanzata nemica. A Oslavia i rovesci non offrivano rifugio.

Solo la magnifica resistenza del soldato italiano al bombardamento rende possibili certe situazioni. Non so quali truppe più delle nostre posseggono questo spirito di sacrificio, di abnegazione, di rassegnazione, di disciplina, e tanto coraggio di fronte all’ineluttabile.

Verso la sera del 14 il bombardamento cessò. La notte discese chiara, fredda e calma, sorse la luna e nel suo azzurro chiarore i soldati lavorarono a rafforzare le trincee devastate. La tregua fu breve. Alle 8 il cannoneggiamento ricominciò più serrato, furibondo, con una violenza definitiva. La vallata con le sue gibbosità, con i suoi costoni brulli, con le sue tetre ondulazioni, s’illuminava tutta, sinistra e imponente, in un palpitare di lampeggiamenti, in un balenio violastro e fumigante, piena del tremolio di fantastiche luci. Poi, improvvisamente, silenzio.

Erano le nove e mezza. Trascorsero alcuni minuti lenti, grevi di attesa e la fucileria scrosciò.

La linea delle posizioni si disegnò a poco a poco con uno scintillio fitto di colpi. Segnali luminosi sprizzavano dalle nostre trincee, lanciando in aria vivide fiammelle azzurre e rosee, e i razzi illuminanti del nemico salivano lenti e dritti nel cielo sereno, con la loro lieve coda sottile di faville, per accendere in alto delle candide abbaglianti meteore, che spandevano per lunghi secondi sulla terra la calma luminosità di un crepuscolo e lasciavano, estinguendosi, un punto di bragia oscillante tra le stelle. Pareva che frugassero per tutto, quelle luci sorprendenti, sotto alle quali ogni cosa proiettava un’ombra lunga, netta e instabile.

Si distinguevano sul fragore uniforme dei fucili e delle mitragliatrici i boati delle granate a mano, la cui vampa dava diafanità sanguigne e dense nuvole di fumo. Di tanto in tanto saliva confusamente da laggiù il grido dell’assalto e della mischia. Lontano, nello sfondo vaporoso e oscuro del paesaggio notturno, Gorizia distendeva il punteggiamento dei suoi lumi, una tranquilla costellazione di fanali accesi e di finestre illuminate.

Per due ore continuò il combattimento con brevi periodi di languore. Verso mezzanotte la battaglia pareva cessata. Vi furono venti o trenta minuti di calma. Poi il fuoco riprese. Ebbe un’altra ora di parossismo e si quietò. Si era intuito, seguendo lo strepito, uno spostamento successivo dell’attacco. Il centro di intensità della lotta era passato da destra a sinistra. Ma i telefoni erano interrotti e mancavano notizie immediate e precise.

Del resto, nella notte i combattenti stessi non conoscevano quello che avveniva ai loro fianchi. Gli ultimi fonogrammi, annunziato l’attacco, dicevano: «Resistiamo». Ma i messaggi erano giunti dai settori meno premuti dal nemico. L’azione, in quella prima fase, era affidata all’iniziativa dei comandanti locali. Nel buio dovevano essere avvenuti frammischiamenti inevitabili, perdite di contatto, e la sospensione della lotta indicava un disorientamento che paralizzava tutti e due gli avversari. Intanto le artiglierie del nemico e le nostre riprendevano il fuoco, non più sulle posizioni, perché era difficile sapere chi le tenesse, ma al di qua e al di là, con tiri di interdizione, facendo sbarramenti e cercando di mettere dalle due parti un ostacolo al movimento delle riserve.

La battaglia doveva decidersi il giorno dopo.

Dalla fronte, 1 febbraio 1916

Ecco cosa era successo nella notte del 14 gennaio.

La posizione principale di Oslavia è formata da due collinette, una più alta a sinistra - la Quota 188 - una più bassa e oblunga a destra - la collina di Oslavia. Fra le due, un lieve avvallamento per il quale si inoltra la strada che scende a Gorizia - la così detta Sella di Oslavia. Gli austriaci, preparato l’attacco con tre giorni di bombardamento, hanno lanciato sette od otto battaglioni all’assalto, dirigendo lo sforzo maggiore verso la Sella. Quattro battaglioni erano formati di truppe fresche, portate da oltre Lubiana. A loro era affidato il compito più grave: lo sfondamento. Erano arrivate alla mattina stessa per ferrovia a Gorizia, dove avevano trovato pronto per loro il bagno e il rancio, e nel pomeriggio si erano messe in marcia per la fronte. Gli altri battaglioni appartenevano alle truppe del settore.

Gli austriaci si avvicinarono in silenzio, preceduti da lanciatori di granate. Arrivarono all’improvviso. A dieci passi dai parapetti si vide ad un tratto l’agitazione delle loro ombre nel chiarore lunare. Non vi erano più cavalli di Frisia, la strada era stata aperta dalle cannonate. Essi balzarono su urlando e lanciando bombe. La fucileria che scrosciò subito era la nostra.

Un particolare curioso non vogliamo dimenticare: non ha importanza ma caratterizza il nemico. Durante la prima sosta delle artiglierie, sull’imbrunire, un ufficiale austriaco avanzò verso le nostre trincee della Sella gridando: «Italiani, non sparate, è stato concluso un armistizio!» Probabilmente egli voleva soltanto constatare se la Sella era ancora occupata e riconoscere i passaggi, e portava avanti la menzogna come uno scudo. Più tardi si udirono delle acclamazioni nelle posizioni nemiche, e delle voci gridarono in italiano: «È stata fatta la pace!» Pronunziavano paaze. Un prigioniero ha dichiarato poi che si trattava della paaze di Montenegro.

Il primo urto avvenne a destra, dove la collina di Oslavia declina nella confluenza di due valloncelli. Qui l’assalto fu fermato. Sulla vetta della collina di Oslavia la linea della difesa dovette arretrare. Discese di un centinaio di metri per non essere spezzata. Non vi erano più trincee lassù, il bombardamento aveva tutto sconvolto, l’assalto non trovò ostacoli e il fuoco della resistenza, valorosa ma esangue, non poteva lungamente fermarlo. Ma sorpassati i ruderi del villaggio, che sono sulla vetta, gli austriaci non osarono proseguire l’avanzata. I nostri chiamarono allora i rinforzi più vicini per procedere al contrattacco. Due compagnie, che costituivano la prima riserva, accorsero, e sfilavano correndo giù per i camminamenti angusti quando, scoperte forse dai razzi illuminanti, furono prese d’infilata dall’artiglieria nemica. Avanti a tutti, alla testa della nera colonna, il comandante cadde per il primo, morto, e la truppa fu costretta a fermarsi, aspettando l’alba. A sinistra delle rovine di Oslavia, verso la Sella, dove l’assalto si scagliò più pesante, ammassato, impetuoso, l’ondata austriaca trovò una sconnessura e filtrò, non si sa ancora come. La battaglia aveva fatto dei vuoti. I difensori della Sella si accorsero ad un tratto di essere aggirati sulla destra. Sentirono il fuoco nemico avvilupparli, tagliarli fuori. La loro resistenza si prolungò fino alle undici e mezza; furono due lunghe ore di lotta furibonda, ostinata, con corpi a corpi che empivano la note di clamore. Poi la Sella fu perduta.

Il colonnello che comandava il settore della Quota 188, un eroico ufficiale che è morto il giorno dopo fulminato da una palla in fronte mentre comandava un assalto, fece abilmente spostare due compagnie per creare un argine alla sua destra minacciata. Gli austriaci, fermati così nella loro manovra di aggiramento, tentarono di aver ragione della Quota 188 con un nuovo attacco frontale.

Fu questo il combattimento di cui si udì il frastuono a mezzanotte, quando tutto pareva finito. L’attacco arrivò alle trincee; in due punti anche vi penetrò. Ma il nemico fu ricacciato a baionettate, subito dopo. I combattimenti erano durati quattro ore. In quel periodo di stanchezza e di stupore che seguono la battaglia nessuno sapeva in modo definitivo i risultati della lotta.

La notte era freddissima; sul terreno che gelava e s’induriva, incipriato di brina, risuonava il passo delle nostre truppe di rincalzo che sfilavano per le retrovie, rischiarate dalla luna al tramonto. Lungo i trinceramenti le pattuglie in esplorazione strisciavano cautamente per ristabilire i contatti, riconoscendo spesso il nemico dal mormorio delle voci barbare, dalla intonazione tedesca o slovena di parole ascoltate da qualche passo di distanza.

Per rafforzarsi gli austriaci scavavano trincee, al di qua delle quali trasportavano e gettavano gli avanzi dei nostri cavalli di Frisia. Si udiva il battere delle zappe sui sassi delle macerie di Oslavia. Ogni tanto lo scoppio di qualche granata italiana faceva far silenzio come un comando. All’alba il tiro delle nostre artiglierie ha cominciato a battere con un’intensità crescente i due brevi settori occupati dal nemico. La nostra offensiva iniziava. Eravamo noi a martellare la difesa.

Il cannoneggiamento è diventato intenso verso le otto, favorito dalla limpidezza di una mattinata di una serenità cristallina. Le nostre batterie cancellavano ogni traccia dei lavori notturni, sovvolgevano e squarciavano ancora una volta la tragica altura di Oslavia e la Sella. Gli austriaci erano scomparsi dietro le rovine del villaggio. La loro artiglieria rispondeva imperversando sui nostri rovesci, sui camminamenti, sulle retrovie, cercando di sbarrare il passo all’attacco che si andava preparando.

In queste strane battaglie di posizione l’artiglieria, accumulata nei centri di azione, assume il predominio; è lei che realmente attacca e difende, conquista, respinge, schiaccia. Lo scontro della fanteria, il combattimento umano, quello che una volta costituiva la vera battaglia si fa sempre più raro e breve. Gli uomini si slanciano per occupare materialmente quello che spesso gli esplosivi hanno già virtualmente preso. Avanti alle truppe tuona una avanguardia di granate, che non si vince che sopportandola. La grande, la terribile difficoltà che i nostri battaglioni dovettero affrontare per riprendere Oslavia non fu la difesa degli austriaci trincerati: fu la traversata delle zone battute dall’artiglieria nemica. Era la marcia mortale e non l’assalto.

La natura tatticamente sfavorevole del terreno ci obbligava a muoverci in piena vista di tutti gli osservatori nemici. Dal Sabotino scorgevano tutte le nostre colonne sfilare per i camminamenti e guidavano su di loro le raffiche delle batterie. La guerra in queste condizioni è una prova di impassibilità, un esperimento di resistenza morale: due fanterie avversarie, discoste, che non si vedono fra di loro, sono sottoposte alla fulminazione; quella che non resiste ha perduto. Nel bombardamento i nostri marciavano; gli austriaci abbandonavano Oslavia.

Tutta la mattinata e parte del pomeriggio continuò la bufera delle cannonate. Alle tre il nostro fuoco di artiglieria allungò il tiro oltre le posizioni; passò l’ordine di avanzata. Le truppe si slanciarono all’assalto, a sciami, balzando tra le asperità della collina di Oslavia, scomparendo, ricomparendo più su, gettandosi nelle vecchie trincee servite ai primi attacchi o nelle cavità aperte dalle granate quando sentivano ululare a stormi i grossi proiettili nemici, e tutto il costone pareva pagliettato dal balenio delle baionette. Gli austriaci facevano un gran consumo dei loro nuovi shrapnels–granata, che esplodono due volte, in aria e a terra. Ma la fanteria austriaca era scomparsa.

Sulla vetta non erano rimasti che pochi uomini tagliati fuori dal nostro fuoco d’interdizione. Un plotone austriaco, asserragliato nelle rovine di due case, fu sloggiato con la baionetta. A sinistra della collina, una compagnia italiana sorpassò audacemente le posizioni per inseguire un manipolo austriaco che fuggiva verso la formidabile altura di Peuma. I fuggiaschi imboccarono un camminamento, e i nostri dietro, urlando, le baionette basse. La fuga portò lo scompiglio in una trincea avanzata austriaca, che si vuotò. I nostri la occuparono, vi si asserragliarono, lavorarono a rovesciarne i parapetti, la tennero.

Era sull’imbrunire. Quella trincea è stata difesa dai nostri tutta la notte. Ma non fu possibile potere stabilire comunicazioni con essa e inviarvi rinforzi, e l’abbandono si impose. L’artiglieria austriaca aveva chiuso la strada con un fuoco furioso che diceva la concitazione e l’allarme.

Al tramonto del giorno 15 noi avevamo dunque ripreso Oslavia e ci eravamo incuneati a sinistra nelle forti posizioni nemiche di Peuma, ma al centro la Sella era rimasta austriaca.

Un primo tentativo per riconquistarla era fallito. Fu precisamente all’assalto della Sella che cadde l’eroico colonnello alla cui pronta manovra si doveva la difesa della Quota 188. Per cooperare ad un nuovo sforzo fu fatto avvicinare un reparto di bersaglieri. Venne scorto dal nemico, cannoneggiato, decimato, fermato in fondo al vallone dove si accovacciò e passò la notte.

La Sella di Oslavia, per la sua conformazione, permetteva agli austriaci un concentramento di fuoco di mitragliatrici. A tutti gli attacchi, quel punto aveva sempre opposto la più tenace resistenza. E questa avvallatura, così forte quando è difesa da levante, rappresenta invece un punto vulnerabile quando è difesa da ponente.

Alla sera del giorno 15 la situazione era delle più singolari. Noi ci trovavamo fianco a fianco con gli austriaci, sulla medesima fronte. Avevamo un nucleo nemico nelle nostre stesse trincee.

L’attacco frontale non essendo stato sufficiente, si accentuò la pressione laterale. Le due estremità della nostra linea tagliata cominciarono a tendere una verso l’altra, rinforzate, ingrossate, come due parentesi che si avvicinino, mentre sulla fronte l’assalto progrediva più cauto e più lento.

Questa fu l’azione del giorno 16, un’azione di piccoli gruppi, tutto un combattimento di infiltrazioni, di sgretolamento. Erano tre minuscole fronti che si andavano accostando. Nelle prime ore del pomeriggio la riconquista era completa.

Per la terza volta prendevamo possesso delle posizioni di Oslavia. Ma la calma non seguì, quella calma relativa dei periodi di sosta. Un lento bombardamento continuò notte e giorno, a intervalli. Gli austriaci volevano impedire i lavori di rafforzamento. Battevano anche lontano, a caso, cercando di ostacolare i trasporti di materiale, i movimenti di truppe, indovinando l’affaccendamento notturno di soldati curvi sotto a pesanti cavalli di Frisia portati a spalla da cantieri remoti. Arrivavano ai villaggi ancora abitati le grosse granate massacratrici di inermi.

A San Martino di Quisca, di fronte al fosco Sabotino, gli abitanti gremivano perennemente la piccola chiesa, in vetta al paesello montano, e una preghiera fervente di donne genuflesse si spandeva dalla porta spalancata mentre le mura del tempio tremavano ai boati, e fra le vecchie case, per le viuzze anguste e scoscese, salivano gruppi di contadini esterrefatti, smorti, silenziosi, portando a braccia i loro feriti esangui. Il paesello era bombardato come una fortezza.

Il giorno 24 si presentì un nuovo attacco. Dalle prime ore il cannoneggiamento divenne più violento, più serrato, più terribile di quello che non fosse mai stato. Il nemico aveva aumentato il numero delle sue batterie. I colpi da 305 pareva volessero demolire le colline.

Il tempo era radioso, e dal terreno secco le esplosioni sollevavano immani cumuli di polvere rossiccia che si adagiavano nella calma, frammisti al fumo. Dalle rovine di San Floriano, battute anche loro, le posizioni di Oslavia erano in certi momenti invisibili, allo spostarsi lento delle nubi esse riapparivano oscure, smorte come spente, nell’ombra densa dei nembi. Per i combattenti, laggiù, il sereno era scomparso; essi vedevano in un cielo grigio il sole velato, come nelle giornate di ghibli (nota 1) sulla costa africana.

Verso le cinque si è levato un vento leggero e freddo ed è scesa la nebbia, per tutto. Era una di quelle nebbie invernali, fitte e improvvise che isolano, chiudono, mettono una parete plumbea avanti agli sguardi, disorientano. Il bombardamento continuava nel caos dei vapori. La nebbia anticipava la notte, scolorava tutto in un funereo lividore crepuscolare. Alle cinque e mezza il tiro dell’artiglieria si allungò e subito dopo l’assalto nemico arrivò senza gridi, rapido, inavvertito.

Gli austriaci stessi, lanciati ciecamente nella nebbia, non sapevano forse quando avevano incontrato la nostra difesa. Si iniziò la lotta corpo a corpo senza transazioni. In un  minuto fu la mischia su tutte le trincee. Non ci si vedeva a due passi e l’azione si snodava in infiniti episodi. Fu un frammischiamento fantastico nell’ombra, entro le trincee nei camminamenti. Era difficile distinguere gli amici dai nemici. «Parla!» - gridavano i nostri soldati prima di sferrare il colpo. Sulla Sella un capitano dei bersaglieri prese per il petto un uomo che gli pareva dei suoi e che si ritrasse: «Vergogna, torna indietro subito» - gli gridò. L’uomo alzò le mani: era un austriaco. Nessuno può fare la storia di quell’ora di tumulto.

Non bisogna immaginare la fronte di Oslavia come una linea continua di trincee. Il terreno spezzato in un’infinità di valloncelli e di greti, cosparso di macerie, sconvolto dalle artiglierie, ci aveva costretti a sezionare la difesa in numerosi elementi di trincea, disposti per ogni verso, nei quali il combattimento si intrecciava. Si comprese subito che questa volta il nemico, arrivato con forze maggiori, aveva rinnovato la tattica del giorno 14, ma portando l’attacco più violento e deciso sopra un punto diverso.

La nostra azione ha avuto per scopo il rinsaldamento della nostra fronte. È stata un’azione lenta, sistematica, costante, riuscita, ma che non possiamo considerare ancora finita. Il più grande riserbo si impone perciò per qualche tempo.

Il bombardamento è continuato furibondo il giorno 25, poi è andato rallentando ma non  ha avuto più soste. E questa volta ha tormentato posizioni dall’apparenza deserta. Perché in questa guerra di trincee nulla può far distinguere una posizione abbandonata da una posizione difesa, finché non si va a vedere.

Fino al momento in cui le fanterie avanzano, spesso non è possibile sapere se vi è della vita dietro l’ostile profilo dei luoghi contro i quali si combatte. Gli uomini debbono confondersi nell’immobilità delle cose, debbono subire le vicissitudini del suolo, debbono arrivare alla impassibilità della terra alla quale si immedesimano, essere come delle pietre poste a segnare i limiti estremi di un dominio.

 

 

 

Note

 

1 Vento caldo e secco, spesso impetuoso, che soffia, provenendo dal deserto, sull’Africa settentrionale, e giunge in Italia umidificato dal Mediterraneo come vento caldo e afoso

 

  LUIGI BARZINI senior GIORNALISTA ED INVIATO DI GUERRA NELLA WW1 DEL CORRIERE DELLA SERA

Barzini scrive questi due articoli riferiti ai combattimenti del gennaio 1916 ad Oslavia proprio i fatti trattati nella nostra ricerca gli articoli sono stati pubblicati sul corriere della sera nel febbraio del 1916 in due puntate e non più pubblicati in seguito essi sono una conferma di un testimone oculare  dei fatti che abbiamo ricostruito.

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